Analisi Conflitto Medio Oriente

Un’analisi su quello che sta succedendo in Medio Oriente tra Israele, Iran e Stati Uniti

Come Trump ha deciso di colpire l’Iran

La portavoce della casa bianca Karoline Leavitt, prima dello scoppio del conflitto, aveva letto un messaggio che “proveniva direttamente dal presidente”. Poiché vi sarebbe stata «una sostanziale possibilità di negoziati» con l’Iran che avrebbe potuto evitare agli Stati Uniti di entrare in guerra in Medio Oriente, Trump avrebbe deciso se colpire o meno l’Iran «entro le prossime due settimane».

Trump in realtà aveva praticamente già deciso di bombardare i siti nucleari iraniani e i preparativi militari erano già in corso. A distanza di 30 ore dalla dichiarazione di Leavitt, Trump avrebbe dato l’ordine di entrare in guerra a fianco di Israele.

I colloqui del New York Times con funzionari dell’amministrazione, alleati e consiglieri di Trump, funzionari del Pentagono e altre persone a conoscenza dei fatti mostrano come, in questo periodo, diverse fazioni degli alleati di Trump si stessero contendendo l’influenza su un presidente che oscillava fra guerra, diplomazia o una combinazione delle due.
Nel mentre, Trump rilasciava dichiarazioni che lasciavano intendere che stesse per trascinare il Paese nel conflitto. «Tutti devono evacuare Teheran!», ha scritto lunedì scorso su Truth Social, il suo social network.

Questi annunci pubblici hanno creato un po’ di confusione al Pentagono (non è la prima volta che Trump si lascia scappare annunci potenzialmente problematici, come quel “it’s a great time to buy!” subito prima di annunciare lo stop temporaneo ai dazi, che ha fatto registrare una delle migliori sedute della storia per i mercati azionari), dove vari funzionari militari hanno iniziato a temere che Trump stesse dando all’Iran troppi avvertimenti su un attacco imminente.

È stato quindi pianificato un depistaggio nel piano d’attacco: un secondo gruppo di B-2 (gli unici aerei in grado di sganciare le bombe anti-bunker, necessarie per raggiungere i siti nucleari iraniani) avrebbe lasciato il Missouri dirigendosi a ovest sul Pacifico in modo che i tracciatori di volo li potessero monitorare. Ciò ha creato per molti, e presumibilmente per l’Iran, un’impressione errata riguardo ai tempi e alla rotta dell’attacco, che sarebbe dunque arrivato da tutt’altra direzione. Il piano era in gran parte pronto quando Trump ha rilasciato, giovedì, la sua dichiarazione secondo cui avrebbe potuto impiegare fino a due settimane per decidere se andare in guerra con l’Iran. (Foto: New York Times)

L’operazione con le bombe “bunker-buster” e l’uranio non pervenuto

Ha così avuto inizio un’operazione militare complessa e altamente sincronizzata. Molte ore dopo il decollo in direzioni opposte, i bombardieri diretti in Iran si sono uniti ai caccia ed hanno penetrato lo spazio aereo iraniano. Alcuni sottomarini americani hanno lanciato 30 missili Tomahawk sui siti nucleari di Natanz e Isfahan.

Alle 2:10 di domenica (ora iraniana), il primo bombardiere ha sganciato due GBU-57 su Fordo, nascosto sotto la montagna e centinaia di metri di cemento. Alla fine della missione, erano state sganciate 14 bombe «spacca-bunker», per la prima volta nella storia. Si tratta di bombe che, anziché esplodere in superficie, “scavano” per decine di metri (proprio per arrivare dentro ai bunker) prima di esplodere.

Ore dopo, alla Casa Bianca, Trump ha tenuto un discorso trionfale affermando che la missione aveva «completamente e totalmente annientato» le capacità nucleari iraniane. Ha suggerito che la guerra potesse finire con quell’unico raid se l’Iran avesse rinunciato al suo programma nucleare. Entro domenica pomeriggio, però, i funzionari USA hanno ridimensionato l’ottimismo, dicendo che le strutture erano state gravemente danneggiate, ma non del tutto distrutte.

Il vicepresidente Vance ha riconosciuto che restano dubbi su dove sia lo stock iraniano di uranio quasi al grado militare. Sia lui sia il segretario di Stato Marco Rubio hanno sottolineato che il cambio di regime — che implicherebbe un coinvolgimento prolungato — non era l’obiettivo.

Il problema dello Stretto di Hormuz e il rischio per l’Europa

Il prezzo del petrolio ha reagito subito dopo l’attacco militare degli Stati Uniti in Iran, ma l’entità dell’aumento è stata giudicata piuttosto contenuta rispetto alle previsioni più catastrofiche circolate prima dell’operazione. Perché tutto questo? La risposta sta nello Stretto di Hormuz, porta d’accesso al Golfo Persico e via di transito per le esportazioni di petrolio di numerosi Paesi, tra cui Arabia Saudita, Kuwait, Iraq e Iran.

Un rapporto Reuters del 2023, basato su varie fonti, stimava che circa il 20% degli oltre 103 milioni di barili al giorno consumati nel mondo transiti quotidianamente dallo Stretto di Hormuz. Esistono rotte alternative via oleodotto per alcuni Paesi, ma non è chiaro quanto la capacità di tali infrastrutture, anche al 100%, possa compensare i flussi normalmente in uscita dallo Stretto. Entriamo più nel dettaglio sul perché questa decisione potrebbe danneggiare l’Europa e la Cina

Partiamo dalla Cina. Una considerevole parte del petrolio che transita per lo stretto di Hormuz è diretta verso la Cina, ma è anche vero che la Cina può contare sul petrolio e gas russo. La riduzione del commercio con l’Occidente da parte della Russia in seguito alla guerra con l’Ucraina, a dirla tutta, ha reso ancora più conveniente per la Cina comprare gas e petrolio russo. Sarebbe quindi un problema, ma i partner commerciali della Cina ci sono e continuano a voler fare affari.

Per l’Europa, il discorso è leggermente diverso. L’Unione dipende in misura minore da questo stretto, ma ha meno alternative: non può riallacciare i rapporti con la Russia e non ha molte altre controparti a cui rivolgersi, anche perché la maggior parte degli altri paesi vende all’Europa gas e petrolio importato dalla Russia a un prezzo maggiore rispetto a quanto l’Europa acquistava direttamente dalla Russia prima delle sanzioni (e direi ovviamente, essendo che si aggiunge un intermediario).

Casualmente (ma lascio a ognuno la libertà di trarre le proprie conclusioni), se lo stretto di Hormuz dovesse essere chiuso, all’Europa rimarrebbe un unico partner commerciale a cui rivolgersi per acquistare la quota mancante di gas naturale e petrolio: gli Stati Uniti.

Cosa fare con gli investimenti?

I mercati sembrano non aver risposto negativamente al conflitto. Al di là dei movimenti del prezzo del petrolio, i listini azionari fino ad ora hanno tenuto bene. Non è del tutto una sorpresa: i fattori che influenzano maggiormente l’andamento dei mercati sono gli utili aziendali e la politica macroeconomica delle banche centrali. I conflitti geopolitici, per quanto siano un dramma a livello umano e politico, non influenzano in maniera estrema l’andamento del mercato azionario. Se il conflitto dovesse per qualche motivo traslarsi all’economia reale statunitense ed europea, allora lì potremmo vedere qualche movimento al ribasso. Ma per il momento questa ipotesi non è realistica: l’economia del medio oriente (a parte per il petrolio) non è rilevante e non è direttamente correlata all’economia dei principali paesi sviluppati.

Quello che fa il bello e il cattivo tempo, ad oggi, sono le aziende degli Stati Uniti. Le dichiarazioni politiche di Trump spaventano le persone, ma spaventano i mercati solo quando coinvolgono direttamente i mercati stessi. Il mercato è crollato per i dazi perché questo metteva grandissima pressione sugli utili aziendali: se domani un’azienda si trova a dover pagare il 20% in più per i materiali, il suo margine si ridurrà. Per il conflitto geopolitico i rischi sono altri, ma impattano in maniera meno diretta:

  1. Possibili problematiche nella catena di approvvigionamento del petrolio (che però abbiamo detto influenzano meno gli USA)
  2. Possibile perdita di credibilità USA (ulteriore) e ripercussioni sul dollaro
  3. Possibile aumento della spesa pubblica USA se il conflitto dovesse protrarsi nel tempo, con ripercussioni sia sul dollaro sia sul debito pubblico (che già oggi è oggetto di attenzione vista la mole immensa).

È ancora troppo presto per sapere se l’intervento USA finirà qui o proseguirà. Una cosa è certa: anche gli USA sono frammentati internamente dal punto di vista politico e il fatto che non tutti siano d’accordo con le scelte di Trump crea maggiore incertezza per il futuro.

È impossibile non fare paragoni con quello che è successo in Iraq, soprattutto se il conflitto dovesse protrarsi nel tempo. Ma in questo momento di incertezza c’è un dato che rassicura i nostri portafogli: dall’invasione in Iraq da parte degli USA (nel 2003) ad oggi il mercato azionario americano ha guadagnato l’867%. Non male nonostante tutto ciò che è successo, vero?

Sei soddisfatto del servizio? Lasciami una recensione su Google!

Mi aiuterai a rinforzare il servizio di consulenza e la mia presenza online. Clicca sul tasto qui sotto per lasciare una recensione. Ti ringrazio moltissimo!

Per qualsiasi chiarimento rimango a disposizione!